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La tutela della reputazione su internet, soprattutto dei soggetti minori, è divenuta una delle necessità di un epoca dominata dai social network.
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I nostri dati personali sono esposti sulla rete ad ogni forma di condivisione, molte volte direttamente da noi stessi.
In questa condivisione si nasconde più di una insidia, soprattutto se la diffusione di dati riguarda soggetti minori, che potrebbero subire gravi danni da una diffusione incontrollata di dati personali.
I danni più frequenti sul web riguardano comportamenti in grado di integrare il reato di diffamazione, o essere anche sinonimo di bullismo ( o, meglio cyberbullimso).
A volte la lesione dell’onore e della reputazione della parte lesa si accompagna ad un trattamento illecito di dati personali.
E’ questo il caso affrontato dalla Corte di Cassazione.
La diffamazione compiuta attraverso internet è più grave della pubblicazione di dati personali in grado di integrare il reato di cui all‘art 167 del codice privacy.
E quando le fattispecie concorrono perchè accanto al messaggio diffamatorio vengano inseriti anche i dati personali del diffamato, si deve applicare il reato più grave che , nella fattispecie, la Corte di Cassazione ritiene essere quello di diffamazione.
E’ quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione in una sentenza di fine settembre di quest’anno.
La vicenda riguardava l’impugnazione effettuata da un imputato della condanna operata da una Corte d’appello, alla pena di mesi sette di reclusione per i reati di cui agli artt. 595 cod. pen. e 167 D.Igs. n. 196/2003.
All’imputato erano stati ascritte le condotte di avere, in qualità di redattore di due articoli comparsi sulla pagina web di una Radio, diffamato due cittadini italiani affidatari di tre minori nonché di avere con gli stessi articoli pubblicato dati personali dei suddetti soggetti.
La Cassazione ha ritenuto che la diffamazione fosse più grave del trattamento illecito di dati personali .
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